Il centenario della morte di Giacomo Puccini
- Lorenzo Giovati
- 29 nov 2024
- Tempo di lettura: 14 min
A cento anni dalla sua scomparsa, Giacomo Puccini rimane ancora oggi una figura centrale e insostituibile nella storia della musica. Il 29 novembre 1924, a Bruxelles, si spense l’uomo, ma il suo genio musicale continua a ispirare, alimentando la memoria collettiva e i cuori di milioni di spettatori in tutto il mondo. Puccini è più di un semplice compositore: con lui infatti si concluse il glorioso periodo dell’opera lirica Italiana, che con Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi aveva acquisito un ruolo centrale, universalmente riconosciuto.
Giacomo Puccini nacque a Lucca il 22 dicembre 1858 e fu l’ultimo esponente di una lunga stirpe di musicisti, la seconda nella storia per quantità di musicisti, dopo i Bach, famiglia tedesca che annoverava ben sette compositori illustri. Gli antenati di Puccini furono per generazioni musicisti di chiesa a Lucca, contribuendo a creare in lui una solida tradizione musicale. Sin da giovane, Puccini mostrò un’attitudine straordinaria per la musica, anche se inizialmente sembrava destinato a proseguire la tradizione familiare come organista. La sua passione per il teatro musicale si accese presumibilmente, secondo una celebre leggenda, quando percorse a piedi il tragitto da Lucca a Pisa per assistere a una rappresentazione dell’Aida di Verdi. Un episodio, vero o leggendario, che attesta il fervore con cui il giovane Puccini guardava a Verdi come modello insuperabile. Recentemente sono stati rinvenuti dei documenti che attestano che il comune di Lucca aveva in realtà organizzato un treno speciale per l’evento.
Il percorso formativo di Puccini passò per il Conservatorio di Milano, dove studiò con Amilcare Ponchielli, celebre compositore de La Gioconda. Durante gli anni milanesi, Puccini compose il Capriccio Sinfonico come saggio di diploma, mostrando una precoce maestria orchestrale. Durante il periodo degli studi, conobbe e divenne amico di Mascagni, con il quale aveva escogitato un bizzarro metodo per sfuggire ai suoi creditori milanesi: quando questi si presentavano alla sua porta, Mascagni affermava prontamente che Puccini era appena uscito, quando in realtà quest’ultimo era nascosto nell'armadio. Lo stesso faceva Puccini quando i creditori erano quelli di Mascagni.
Nelle lettere di questo periodo, indirizzate soprattutto alla madre (con la quale aveva ottimi rapporti), Puccini fa spesso riferimento alla sua esistenza frugale. Tale sentimento ritornerà poi nei libretti delle sue opere (Ad esempio Il Tabarro, Frugola “Ho sognato una casetta, quattro muri stretta stretta, con un piccolo orticello e due pini per ombrello” / Tosca, Tosca “Non la sospiri la nostra casetta, che tutta ascosa nel verde ci aspetta?” / Turandot, Ping, Pong, Pang “Ho una casa nell’Honan, con un bel laghetto blu, tutta cinta di bambù”).
La sua carriera operistica iniziò con Le Willis, composta per partecipare al concorso dell’editore Sonzogno, per cui si chiedeva di presentare un'opera ad atto unico. Sebbene l’opera non vinse, a causa del disordine della partitura (composta in parte anche su tovaglioli da bar, a seconda di dove gli venisse l'ispirazione), fu rappresentata al Teatro Dal Verme di Milano, grazie all'aiuto di alcune conoscenze, riscuotendo un buon successo. L’opera ebbe fortuna anche fuori dall’Italia e in particolare ad Amburgo, sotto la direzione di Gustav Mahler, il quale mandò a Puccini una fotografia per commemorarne l’esecuzione. Questo risultato, insieme a qualche buona parola di Ponchielli, fu sufficiente a catturare l’attenzione di Giulio Ricordi, personaggio di spicco nell'ambito operistico dell'epoca (infatti fu editore anche di Verdi) che revisionò l’opera e intraprese con Puccini un rapporto di mecenatismo e amicizia destinato a segnare l’intera carriera del compositore.
Dopo Le Willis, Puccini compose Edgar, un’opera che, pur mostrando spunti interessanti, non riuscì a ottenere il favore del pubblico. Questo insuccesso, dovuto anche ad una situazione difficile della vita di Puccini (che perse infatti la madre in quel periodo), non scoraggiò il compositore, che trovò il suo primo vero trionfo con Manon Lescaut. L’opera segnò un momento di svolta, non solo per il successo straordinario, ma anche per la carriera e la vita di Puccini. Il compositore lucchese, infatti si sposò in quel periodo e rafforzò l'amicizia con Ruggero Leoncavallo. Si narra, infatti, che per trovare quiete durante la stesura della Manon, Leoncavallo consigliò a Puccini di recarsi a Vacallo, un piccolo paese vicino a Chiasso. Quando vi giunse, Puccini apprese che lo stesso Leoncavallo era lì per comporre e nella casa dirimpetta alla sua, sulla quale aveva appeso una tela con un pagliaccio disegnato, per indicare l'opera a cui stava lavorando (Pagliacci). Puccini replicò poco dopo applicando alla facciata di casa sua una grande mano, una manona (Manon).
La scelta di musicare la storia di Manon, già trattata da Massenet, suscitò inevitabili paragoni, ma Puccini affermò che "Massenet lo sentiva da francese, con cipria e minuetti, io lo sento da italiano, con passione disperata". Nonostante questa tangibile e reale differenza, fu giustamente consigliato a Puccini di chiamare l'opera, non Manon, ma Manon Lescaut per evitare fraintendimenti. Al libretto dell'opera lavorarono Leoncavallo, Praga, Oliva, Illica e anche Giacosa, con cui poi svilupperà alcuni dei libretti delle sue opere più note.
La sua terza opera, come accadde anche a Verdi con il Nabucco, fu un successo, dopo il quale Puccini iniziò un nuovo progetto, basato sulla novella di Giovanni Verga, La Lupa, in seguito al successo di Cavalleria Rusticana, che aveva vinto il concorso Sonzogno (lo stesso che Puccini tentò qualche anno prima). Addirittura si trasferì per qualche giorno in Sicilia per conoscere i paesaggi, le persone e per concertare la realizzazione dell'opera con Giovanni Verga stesso. Durante il viaggio di ritorno, però, fu assalito dai dubbi e abbandonò il progetto dopo averne realizzato solo qualche frammento musicale, che poi fu riutilizzato nell'opera successiva: La Bohème.
La genesi di quest’opera fu accompagnata da una polemica con l'amico Ruggero Leoncavallo, che stava lavorando a un’opera basata sul medesimo soggetto: Scenes de la vie de bohème di Henry Murger. A quell'epoca, infatti, il soggetto di un'opera "in lavorazione" era considerato un segreto d'ufficio da salvaguardare gelosamente. Ricordi, ovviamente nella diatriba tra i due parteggiava per Puccini, a tal punto da soprannominare Leoncavallo "Leon-asino". Come Puccini venne a conoscenza del soggetto di Leoncavallo non è ancora oggi chiaro: sembra che all'epoca Puccini stesse già pensando ad una Bohème, ma allo stesso tempo pare che sia stato proprio Leoncavallo a mostrare il proprio libretto a Puccini. Puccini, rispondendo ad un articolo de "Il Secolo" (giornale di Sonzogno), fece pubblicare sul Corriere (giornale di Ricordi), una lettera con cui difese la propria interpretazione, sottolineando che la stessa trama poteva essere trattata in modi diversi. La stesura dell’opera fu lunga e travagliata, sia dal punto di vista del libretto (che non piaceva a Puccini), sia dal punto di vista musicale. La difficoltà e la lentezza nel comporre è testimoniata da questa divertente lettera che Ricordi scrive a Puccini per chiedere notizie sul progredire dei lavori:
Toc, toc!
Quid petis?
Jacopus Puccinius
Quare?
Ut videtur si laboret.
Laborat.
Laborat? ad Bohemiam?
Ad Bohemiam
Bene est!
Il rapporto tra Puccini e i suoi librettisti fu spesso controverso, complicato dall'ossessivo perfezionismo del compositore e dalla sua insistenza su continui aggiustamenti. Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, che collaborarono con lui a La Bohème, Tosca e Madama Butterfly, si lamentavano frequentemente delle richieste di modifiche, che ritenevano eccessive. Giacosa, in particolare, espresse più volte frustrazione per le numerose revisioni imposte da Puccini, tanto che minacciò più volte di abbandonare i progetti. Nei libretti per Puccini c'era una specie di divisione del lavoro fra Illica e Giacosa. Compito di Illica era di stendere il canovaccio e sviluppare la trama nei particolari; Giacosa invece versificava il testo, elaborava le situazioni liriche, introduceva un equilibrio maggiore nella successione delle scene, e, in genere, curava le rifiniture letterarie. Uno degli episodi più celebri del perfezionismo di Puccini riguarda l’aria di Musetta in La Bohème, “Quando me'n vo', Quando me'n vo' soletta”. Puccini, insoddisfatto delle prime versioni del testo, chiese a Giacosa di inventare una frase che suonasse musicalmente come “Cocoricò Cocoricò Bistecca”. Questa espressione, apparentemente assurda, rifletteva l'attenzione del compositore alla fonetica e alla ritmica del testo, che doveva sposarsi perfettamente con la melodia.
Dopo diverso tempo, nacque quindi La Bohème, uno dei più grandi capolavori di Puccini, che comunque ottenne meno successo della versione di Leoncavallo.
Durante la stesura dell’opera, Puccini si trasferì a Torre del Lago, dove trovò un rifugio creativo e personale, ancora oggi testimoniato da una bellissima villa sul lago. Qui fondò il Club La Bohème, formato dai suoi amici più stretti che insieme a lui si ritiravano in una taverna, sulle pareti della quale campeggiavano frasi in latino maccheronico. Lo spirito di questo circolo lo si può evincere dalle sue "regole":
I soci, fedeli interpreti dello spirito onde il club è stato fondato, giurano di bere bene e mangiare meglio.
Ammusoniti, pedanti, stomachi deboli, poveri di spirito, schizzinosi e altri disgraziati del genere, non sono ammessi o vengono cacciati a furore di soci.
Il Presidente funge da conciliatore, ma s'incarica d'ostacolare il cassiere nella riscossione delle quote sociali.
Il cassiere ha facoltà di fuggire con la cassa.
L'illuminazione del locale è fatta con lampada a petrolio. Mancando il combustibile servono i "moccoli" dei soci.
Sono severamente proibiti tutti i giochi leciti.
È vietato il silenzio.
La saggezza non è ammessa neppure in via eccezionale.
Sulla simpatia e l’umorismo di Giacomo Puccini con gli amici, concordano tutti i biografi. Ne è un esempio il bizzarro 'augurio' inviato per il Capodanno del 1899, il suo personalissimo "poema" "Cacca di Lucca".
Cacca di Lucca è sempre senza pecca
Anche se fatta in fretta da baldracca
Sia nera, o gialla, o rossa come lacca
Cacca di Lucca è sempre senza pecca
Sia secca, o a uliva cucca, o fil di rocca
O fatta a neccio come fa la mucca
Il suo profumo mai ci stucca
Cacca di Lucca è proprio senza pecca.
GIACOMO PUCCINI
Della vita privata di Giacomo Puccini sono testimoniate numerose relazioni extraconiugali, che si affiancavano al suo matrimonio con Elvira Bonturi. Il compositore, noto per il suo spirito libero e la sua passione per la bellezza in tutte le sue forme, intrattenne legami con diverse donne, che spesso furono fonte di scandali e tensioni, sia personali che pubblici. Tra le storie più discusse vi è quella con Doria Manfredi, una giovane domestica di casa sua, che si concluse tragicamente con il suicidio della donna, lasciando un’ombra sulla sua vita familiare. Puccini fu anche un grande appassionato di macchine, che all'epoca erano un bene di lusso. Arrivò a possederne, nonostante la sua propensione al risparmio, circa dodici. La sua passione per le automobili gli causò anche un problema alla gamba in seguito a un incidente nei pressi di Viareggio.
La genesi della quinta opera, Tosca, prese avvio nel 1889 (due settimane dopo la prima dell'Edgar), quando Puccini entrò in contatto con il dramma La Tosca di Victorien Sardou. Colpito dalla forza drammatica del testo, Puccini chiese a Giulio Ricordi di acquisire i diritti per adattarlo a un’opera lirica. Sardou si dimostrò inizialmente riluttante, ma nel 1893, grazie alla perseveranza di Ricordi, Puccini ottenne il permesso, ma il progetto fu temporaneamente accantonato per permettergli di completare La Bohème. Il lavoro riprese nel 1896 con Luigi Illica e Giuseppe Giacosa come librettisti, ma il processo creativo fu tutt’altro che lineare.
Curioso è l'episodio in cui Puccini intraprese una meticolosa ricerca sulla nota della campana della Basilica di San Pietro per il terzo atto di Tosca, che si apre con il suggestivo suono delle campane romane all’alba. Si rivolse a Don Pietro Panichelli, sacerdote originario di Pietrasanta e futuro biografo del compositore, il quale scoprì che la campana suonava un mi naturale, dettaglio che Puccini utilizzò come base per costruire l’introduzione orchestrale e la celebre aria E lucevan le stelle. La collaborazione tra i due non si fermò qui: Puccini chiese a Panichelli anche un consiglio per le frasi declamate ("Adjutorum nostrum in nomine Domini, Qui fecit coelum et terram") per il Te Deum che conclude il primo atto. Fu inoltre un suggerimento di Panichelli il nome del poeta dialettale Luigi Zanazzo per definire il testo dell’aria del pastorello, aggiungendo un tocco di realismo e autenticità alla scena. Puccini addirittura si recò in cima a Castel Sant’Angelo di buon mattino per immedesimarsi nell’atmosfera dell’alba romana.
La prima rappresentazione di Tosca si tenne il 14 gennaio 1900 al Teatro Costanzi di Roma. Fu un evento carico di tensione anche per il clima politico dell’epoca. Le autorità, preoccupate per la natura politica dell’opera e per i recenti attentati anarchici, intensificarono i controlli. Nello stipato Teatro Costanzi, gli interpreti avevano ricevuto minacciose lettere anonime. Un quarto d'ora prima dell’inizio, un poliziotto si presentò nel camerino di Mugnone, il direttore d'orchestra, e lo informò della minaccia di un possibile attentato durante l'esecuzione: in quel caso avrebbe dovuto attaccare immediatamente l'inno nazionale. Il fatto che fossero attesi la regina Margherita, membri del governo e senatori rendeva plausibili le voci di un attentato. Mugnone, avendo già avuto l’esperienza di una bomba al Liceu di Barcellona, scese nella buca d'orchestra come un condannato a morte. Le prime battute furono accolte da rumori che aumentarono con l'entrata in scena di Angelotti. Dal pubblico si levarono grida di «Basta! Giù il sipario!»; e Mugnone si fermò di botto e si rifugiò tremante dietro le scene. Ma la causa della confusione risultò essere un gruppo di ritardatari. Ristabilita la calma, l'opera ricominciò da capo e la rappresentazione si svolse indisturbata fino alla fine. Nonostante le aspre critiche mosse dalla stampa, l'opera ricevette un'ottima approvazione da parte del pubblico.
La genesi di Madama Butterfly è altrettanto complessa. L’idea nacque dopo che Puccini assistette a Londra ad uno spettacolo teatrale basato sul romanzo di Pierre Loti (un ufficiale di marina), Madame Chrysanthème. Come avvenne per la Tosca di Sardou, Puccini non capì nulla del dialogo, ma uscì impressionato dal dramma e dalle ambientazioni. Questa era per lui un’eccellente dimostrazione dell’efficacia drammatica di un soggetto. L’opera, ispirata alle vicende di una geisha giapponese, fu inizialmente un clamoroso insuccesso, nonostante Puccini la ritenesse una delle sue opere più riuscite e suggestive. Puccini aveva addirittura contattato la famosa attrice giapponese Sada Jacco per sentirla parlare nella sua lingua, in modo tale da avere un’impressione autentica del timbro di una voce femminile giapponese, per poi cercare di adattarlo al personaggio di Cio-Cio San. In questo contesto si inserisce l'amicizia con il poeta Giovanni Pascoli, che in risposta ad una lettera di Puccini sull’insuccesso della Butterfly, scrisse:
Caro nostro e grande Maestro,
la farfallina volerà:
ha l’ali sparse di polvere,
con qualche goccia qua e là,
gocce di sangue, gocce di pianto…
Vola, vola farfallina,
a cui piangeva tanto il cuore;
e hai fatto piangere il tuo cantore…
Canta, canta farfallina,
con la tua voce piccolina,
col tuo stridire di sogno,
soave come l’ombra,
all’ombra dei bambù
a Nagasaki ed a Cefù.
Dopo l’accoglienza negativa riservata alla Butterfly, passarono sette anni prima che Puccini venisse a conoscenza del soggetto della Fanciulla del West. In quel lasso di tempo, pensò a musicare soggetti di Oscar Wilde, Giovanni Pascoli, andando addirittura a scavare nella letteratura russa. Tuttavia, in occasione di numerose rappresentazioni di Bohème, Tosca, Manon Lescaut e addirittura Butterfly al Metropolitan, Puccini fu costretto (controvoglia) ad andare in America, ove conobbe il soggetto Girl of the golden West, da cui poi nacque La Fanciulla del West.
Durante la fase di lavorazione e rappresentazione di Tosca, si andava affermando all’interno della Casa Ricordi la figura di Tito, figlio di Giulio, con cui Puccini ebbe un rapporto complicato. Il compositore, infatti, lo chiamava ironicamente “Savoia”, a causa del suo carattere autoritario. Le tensioni tra i due esplosero in occasione di una rappresentazione di Tosca a Vienna, a cui Tito Ricordi si rifiutò di partecipare, preferendo presenziare a una rappresentazione di un'opera di Zandonai a Napoli. Questo affronto irritò profondamente Puccini, che lo interpretò come una grave mancanza di rispetto non solo verso la sua opera, ma anche nei confronti del legame professionale che lo univa a casa Ricordi. La frattura culminò con la nascita de La Rondine, un’opera inizialmente concepita per il Carltheater di Vienna come un’operetta, ma che Puccini trasformò in un lavoro a metà strada tra i due generi. Deluso dal trattamento ricevuto, il compositore scelse di affidare il progetto a Sonzogno, la storica casa editrice rivale di Ricordi.
A causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, l’opera fu data con grande successo al Teatro di Montecarlo.
Puccini tornò allora alla forma degli atti unici, esperienza che lo interessava fin dai primi anni de Le Willis, con il Trittico. La sua idea iniziale era di creare tre opere ispirate alla Divina Commedia, realizzando un’opera drammatica per l’Inferno, un’opera lirica per il Purgatorio e un’opera comica per il Paradiso. Nascono così Il Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi. La ricerca di soggetti adatti per queste opere fu talmente complicata che Puccini dovette abbandonare l’idea della Divina Commedia. Nel periodo tra la Fanciulla e la Rondine, scoprì il libretto del Tabarro, che musicò con qualche interruzione, data l’incertezza sugli altri due soggetti. Nemmeno Gabriele d’Annunzio e Tristan Bernard, ai quali si era rivolto per ricevere qualche consiglio, riuscirono ad aiutarlo nella sua disperata ricerca di soggetti adatti. Fu poi Giovacchino Forzano (direttore del giornale “Nazione” di Firenze, librettista e autore drammatico) che, essendo venuto a sapere del progetto di Puccini, gli propose i soggetti di Suor Angelica e Gianni Schicchi. Entrambi i soggetti piacquero subito a Puccini, che ritrovava in Suor Angelica la dolcezza e il pathos che erano mancati alle sue eroine dopo Butterfly e in Gianni Schicchi un riferimento alla Divina Commedia, che doveva essere originariamente soggetto indiscusso e punto di contatto delle tre opere. Come per Tosca, Puccini chiese i servizi di Don Panichelli per la preghiera che il coro intona durante la scena finale di Suor Angelica e nel settembre del 1917 terminò la seconda opera del Trittico. Molto più di getto fu la stesura del Gianni Schicchi, tratto da una terzina del XXX canto dell’Inferno di Dante che Puccini era solito portare con sé in un’edizione tascabile, che venne terminato nell’aprile del 1918. La prima, tenutasi a New York nel dicembre del 1918 (infatti non si poteva tenere in Italia a causa della Guerra che aveva ridotto il numero di cantanti reperibili), registrò un’ottima accoglienza per lo Schicchi, ma non per le altre due. Lo Schicchi fu subito definito una gemma e per questo Il Trittico venne subito “fatto a pezzi” con una predilezione per l’opera buffa, lasciando cadere Il Tabarro e Suor Angelica. Puccini si rese poi conto che le tre opere unite fossero molto lunghe da rappresentare in una serata e smise di dispiacersi per la divisione effettuata sul suo Trittico. Lo Schicchi continuò ad essere rappresentato insieme a Cavalleria Rusticana o Pagliacci e addirittura con Salomé di Strauss. Per Il Trittico Puccini e Toscanini giunsero ai ferri corti. Sul principio del 1914, Puccini aveva chiesto al direttore d’orchestra la sua opinione sul Tabarro ed egli rispose che l’opera era di “estremo cattivo gusto”. Successivamente Puccini venne a sapere che Toscanini aveva detto “ogni sorta di cattiverie” sul suo Trittico e si impose fermamente per non fargli dirigere l’opera a Londra. Toscanini non diresse mai il Trittico.
Nel 1920, dopo altre affannose e disperate ricerche di un soggetto per una nuova opera, durante un pranzo con Adami (già librettista della Rondine) e Simoni (Critico del Corriere della Sera), Puccini rispolverò l’idea di musicare una fiaba di Gozzi, in particolare la Turandotte del 1762, nella versione di Schiller del 1803 tradotta da Andrea Maffei (lo stesso Maffei che aveva adattato I Masnadieri per Verdi).
Puccini affrontò un periodo di salute sempre più precario, che rallentò notevolmente la composizione dell’opera. A peggiorare la situazione vi era stato un incidente che gli aveva provocato la perforazione della gola, preludio del carcinoma che lo portò alla morte. Al momento della sua scomparsa, avvenuta il 29 Novembre 1924 alle 4 del mattino dopo dieci ore di agonia a causa di un collasso cardiaco, Turandot era incompiuta. Puccini in quattro anni aveva scritto fino alla scena della morte di Liù. La responsabilità di completare il finale fu affidata a Franco Alfano, che lavorò su appunti lasciati da Puccini. Tuttavia, il suo contributo subì importanti modifiche su indicazione di Arturo Toscanini, che ridusse drasticamente il materiale originale, giudicandolo eccessivo. La prima rappresentazione si tenne il 25 aprile 1926 alla Scala di Milano, sotto la direzione dello stesso Toscanini, le cui inimicizie con il nascente regime Fascista crearono non pochi problemi al Teatro alla Scala che voleva invitare Mussolini alla prima. Durante l’esecuzione, l’orchestra si fermò al punto in cui Puccini aveva smesso di scrivere, e Toscanini, rivolgendosi al pubblico, dichiarò solennemente: “A questo punto il Maestro è morto”. Questo breve ma potente intervento, si narra che sia stato il più lungo discorso pubblico di Toscanini.
Nei decenni successivi, Turandot ha ispirato numerosi compositori a proporre versioni alternative del finale, testimoniando la vitalità e la modernità dell’opera. Tra le più celebri, quella di Luciano Berio (2001), che offre una visione contemporanea ed essenziale del finale; quella di Hao Weiya (2008), prodotta in Cina; e quella annunciata per il 2024, affidata a Christopher Tin e Susan Soon He Stanton, che rappresenta un’ulteriore interpretazione moderna dell’eredità pucciniana.
Oggi, a cento anni dalla sua morte, Puccini non è solo un nome scolpito nella storia della musica lirica, di cui ne ha segnato la fine, ma una presenza viva che attraversa ancora oggi i teatri di tutto il mondo. La sua eredità non è confinata al passato, ma continua nel presente, emozionando nuove generazioni di spettatori. Celebrarlo non significa solo ricordare un compositore, la cui musica è ancora potente, moderna e inscindibile dal nostro immaginario collettivo, ma ricordare un uomo la cui modernità fu straordinaria. Un uomo che, come la sua Tosca, “visse d’arte, visse d’amore”.